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«Non si mostrò mai in pubblico senza essere adorno di gioielli»: papa Pio II Piccolomini descriveva così Borso d’Este, signore di Ferrara dal 1450 al 1471. Tali parole sembrano dare ragione a quegli storici che hanno trasmesso l’immagine di un uomo preoccupato più della propria apparenza che delle arti.

Al contrario, i vent’anni del governo di Borso hanno avuto un ruolo centrale sul piano della cultura figurativa: il linguaggio ricercato ed eccentrico, che ha reso celebre l’arte ferrarese del Quattrocento, nasce proprio in questo periodo come espressione esclusiva del signore e della sua corte.

La mostra curata da Mauro Natale ricostruisce questa parabola artistica, offrendo alcune chiavi di lettura utili a comprendere le ragioni di questa rapida crescita espressiva quasi senza riscontro nella storia dell’arte europea.

La rassegna si apre con l’evocazione della grande ricchezza tecnica e formale della Ferrara estense attorno al 1450, animata dalla presenza delle opere di grandi artisti come Jacopo Bellini, Pisanello, Leon Battista Alberti, Andrea Mantegna, Rogier Van der Weyden.

Segue l’affermazione di quella che Roberto Longhi e la storiografia moderna hanno definito Officina ferrarese, che prende forma in alcune imprese monumentali volute dal Principe negli anni 1450-1460. Un ruolo centrale spetta ai miniatori, tra cui domina Taddeo Crivelli, i quali elaborano un linguaggio ornamentale che fonde, come nella celebre e sontuosa Bibbia di Borso, il gusto per la decorazione e l’espressività tardogotica con le forme geometriche e luminose del Rinascimento.

Analoga commistione formale caratterizza le Muse che Leonello e Borso hanno fatto realizzare per lo Studiolo di Belfiore; qui, all’eleganza esile di Angelo Maccagnino, si affianca l’eccentricità espressiva di Michele Pannonio e di Cosmè Tura.

Il fulcro della mostra è costituito dalla consacrazione di questo codice espressivo ad opera di Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’età di Borso si nutre infatti dell’antagonismo tra il primo, poliedrico artista di corte, ed il secondo, instancabile sperimentatore. Muovendosi tra Mantegna e la pittura fiamminga, Tura inventa un linguaggio fantasioso e, al contempo, prezioso e popolare, decorativo ed espressivo, imponendo la propria cifra stilistica nei campi tecnici più svariati, dagli affreschi alle barde da cavallo, dalle monumentali pale d’altare alle soavi Madonne dipinte in punta di pennello.

Di contro, Cossa compie un itinerario ben distinto, che si risolve in una scrittura più asciutta, morbida e plastica, felicemente cromatica, naturalistica e potentemente prospettica. Nelle sue Madonne, nei suoi santi possenti, nei penetranti ritratti, egli avvia un dialogo aperto con la scultura contemporanea e con la luminosa pittura fiorentina di Domenico Veneziano, Andrea del Castagno e Alessio Baldovinetti.

Questa ricerca formale culmina con l’esplosione attorno al 1470 di «una nuova pazzia nell’arte ferrarese» (Longhi): la decorazione del Salone dei Mesi a Palazzo Schifanoia, uno dei cicli decorativi più importanti del Rinascimento. Qui, nell’ultima impresa collettiva voluta dal Duca, fa irruzione sulla scena la terza grande personalità di questa stagione, Ercole de’ Roberti, mentre Francesco del Cossa elabora un’abbagliante traduzione visiva della cultura di corte e delle ambizioni politiche di Borso che costituisce il vertice espressivo della pittura ferrarese. La mostra si conclude proprio nel salone affrescato dell’antica Delizia estense, cui un restauro durato quasi dieci anni ha restituito piena leggibilità.

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Cosme Tura e Francesco del Cossa
L'arte a Ferrara nell'età di Borso d'Este